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Le figlie perdute della Cina

15 giu 2011
La giornalista e scrittrice Xinran racconta il dramma di un Paese che, per lungo tempo, ha costretto le madri a separarsi dalle loro bambine.«Cos’è l’amore materno? Cos’è normale? Lei è mai stata in quei villaggi? Ha visto che vita miserevole fanno le bambine? È solo una fortuna se sopravvivono! Se queste bambine possono andare a vivere in famiglie occidentali ed essere felici, è molto meglio così». Lo sfogo di una donna cinese, costretta a separarsi da sua figlia, risuona nella sua ascoltatrice, la giornalista e scrittrice Xinran, come un dolore conosciuto. Pur essendo nata da una famiglia benestante, le storie che ha ascoltato in giro per il suo paese, e che ora sono raccolte nel commovente libro Le figlie perdute della Cina (ed. Longanesi), sono anche la sua storia. Quella di una donna non amata dalla propria madre, a causa di un modello educativo che anteponeva lo stato alla vita. Quella di una madre che ha cercato di prendersi cura di una seconda bambina abbandonata, e non lo ha potuto fare – perdendola per sempre in un orfanotrofio sparito all’improvviso – a causa di una politica che perseguitava chi cercava di avere un secondo bambino da amare. L’olocausto bianco «Quando cerco di raccontare ciò che ho visto, molti non riescono a credermi», ci dice Xinran, una donna sorridente e minuta, che proprio oggi sarà al festival di Massenzio di Roma. «Eppure sono stati i miei occhi a vedere le vasche a due livelli utilizzate per lavare il neonato se maschio, e affogarlo se femmina. Perché nelle campagne della Cina occidentale, la miseria e l’ignoranza, unite alla politica governativa del figlio unico, avviata nel 1981, hanno generato uno sterminio». Quello di cento milioni di bambine, di cui nessuna statistica ufficiale conosce il destino. Le più fortunate, una minoranza, sono state adottate quando la Cina si è aperta alle adozioni internazionali. Le altre, invece, abbandonate in orfanotrofi senza risorse, oppure soppresse alla nascita. Nel silenzio del loro paese e dell’Occidente. Il dolore più grande Quello di Xinran non è un libro documentario su ciò che è successo, anche se le storie raccontate esemplificano, come in triste catalogo, il destino delle bambine cinesi e delle loro madri. La fondatrice dell’associazione The Mother’s Bridge of Love, che si occupa di creare un ponte culturale tra la Cina e i paesi che hanno adottato le sue figlie, parla soprattutto di dolore. Quello più assoluto, quasi il prototipo di tutti gli altri, generato dalla separazione violenta di un neonato dalla donna che lo ha generato. «Gli esseri umani sono gli animali più emotivi del mondo. Già la perdita di una cosa piccola che ci piace o a cui teniamo – una penna, un libro, una borsa – può farci provare dolore e ansia. Provi a immaginare quanto non debbano essere più profondi i sentimenti di una madre che ha portato nel suo grembo una creatura per nove mesi, chiedendosi per tutto il tempo come sarà. Non può fare a meno di pensarlo e non può nemmeno fare a meno di provare dolore». Un trucco per aggirare il silenzio Alla sofferenza delle madri, e al loro senso di colpa, fa da sfondo una realtà economica e sociale spaventosa, di cui l’occidente quasi nulla ha voluto sapere. Quella delle campagne cinesi, dove, ancora negli anni Ottanta e Novanta, la fame era uno spettro reale e nutrirsi un’impresa. Quello di orfanotrofi provvisori e senza né cibo né personale. Quella di un apparato statale indifferente al vissuto delle persone, fatto di burocrati, medici, levatrici che, pur non capendo, non osavano contravvenire alle regole e alla pesantissima censura. «Quando ho cominciato un programma radiofonico per la Radio di Nanjing, non sapevo come portare alla luce queste storie. Parlarne direttamente era vietato, e allora dovevo inventarmi modi cifrati, indiretti», spiega. «Ma rompere il muro di silenzio era difficilissimo. Una volta, per sbaglio, salii sull’autobus con un seme di peperone sulla faccia, e una donna mi disse che avevo qualcosa sul viso. Cominciammo a parlare e mi raccontò la sua vita. Da allora, decisi di salire sempre con qualche macchia di trucco sul viso. E così conobbi le storie di molte donne». Ricordare la verità Sarebbe consolatorio pensare che le cose, in Cina, siano oggi cambiate e che, proprio come l’Olocausto, lo sterminio delle bambine cinesi sia parte di una memoria pubblica trasmessa alle giovani generazioni, affinché non si ripeta. «In parte è così», dice dolcemente Xinran, «le nuove generazioni rifiutano ogni discriminazione tra maschi e femmine e il movimento di opinione che ricorda ciò che è successo si allarga sempre di più. Però la tragedie delle bambine scomparse è ancora un tabù culturale, di cui ufficialmente si fatica a parlare». E la condizione femminile in Cina, a parte le zone di città, è ancora difficile, tanto che è uno dei pochi paesi al mondo dove le donne si suicidano con più frequenza degli uomini. Molto, però, si può fare. Ricordare, raccontare, lasciando che il dolore si trasformi in un sostegno attivo, come quello promosso dall’associazione The Mother’s bridge of Love, alle bambine cinesi che vivono all’estero. E soprattutto ricordare sempre a queste bambine, come Xinran non si stanca di fare che «le vostre madri biologiche non vi hanno rifiutato. Semplicemente, non hanno potuto fare altrimenti». fonte: www.vanityfair.it di Elisabetta Ambrosi · 14 giugno 2011