Hanno dai due ai sette anni, vengono comprati a duemila dollari nei paesi più poveri dell´Asia e dell´Africa, portati nel Golfo Persico e trasformati, con la violenza, in fantini.
Un uomo arrivato dal Pakistan ha deciso però di dedicare la vita alla liberazione, con ogni mezzo, dei quarantamila bimbi che ogni anno rischiano di morire sulla sella.Dubai
Quando il cammello prese velocità il bambino in groppa commise l´errore più grosso: si mise a urlare. L´animale lo considerò un incitamento. Più il bambino piangeva e gridava, più il cammello accelerava.
Uscì dalla curva in testa alla corsa. Gli uomini accalcati in tribuna lo incoraggiarono alzando le braccia infilate nelle bianche tuniche.
Il proprietario della scuderia sorrise pensando alla vincita imminente. Poi ci fu uno scossone di troppo e il minuscolo fantino perse la presa.
Volò sulla pista, nella sabbia. Gli altri cammelli gli passarono avanti, sfiorandolo e facendolo ruzzolare. Gli sguardi della folla proseguirono verso il traguardo. Il proprietario della scuderia spense il sorriso. I suoi sottoposti accorsero ad accertarsi che non ci fossero danni. Al cammello.
Qualcuno raccolse il bambino e lo trascinò via, nessun medico lo visitò, sugli spalti soltanto un uomo restò a guardarlo mentre veniva allontanato, poi scese, andò al parcheggio, salì in auto e seguì il furgone dove era stato caricato.
I grattacieli di Dubai scomparvero dal retrovisore, sul parabrezza apparve il deserto. Il furgone si fermò dopo qualche chilometro.
L’accampamento era fatto di poche baracche con il tetto di lamiera, a rosolare sotto un sole da 50 gradi, senz’ombra. In un recinto si aggirava lenta una dozzina di cammelli. Tra di loro, occupati a sfamarli o lustrarli, una masnada di bambini di età apparente compresa tra i due e i sei anni.
Qualcuno faceva fatica a camminare. Si fermarono un attimo quando il piccolo fantino caduto in pista fu scaricato e, per le ascelle, trascinato dentro alla baracca. Un grido secco gli fece riprendere il lavoro, a occhi bassi.
Sapevano tutti cosa sarebbe successo al bambino che era caduto. Lo sapeva anche l´uomo seduto in auto: per questo doveva intervenire.
L’uomo della liberazione.
Il suo nome era Ansar Burney. Nato in Pakistan, sposato, padre, attivista in difesa dei diritti umani. Sedici anni addietro aveva assistito per la prima volta a una corsa di cammelli.
Come molti aveva pensato, andandoci, che potesse essere una buffa esperienza. «Ma non guardare gli animali - lo avevano avvertito - osserva i fantini. E capirai».
Quando erano sbucati sulla dirittura aveva strizzato gli occhi: i fantini gli erano sembrati piccolissimi.
Cresceranno avvicinandosi, aveva pensato. Invece no: erano bambini.
Il vincitore, quando fu fatto scendere, faticava perfino a reggersi: avrà avuto due anni.
Non ritirò alcun premio, sparì barcollando.
Da quel giorno Ansar Burney decise di liberare i piccoli schiavi del cammello. Ci sono molti modi di fare l´attivista politico: «La maggior parte si siede a una scrivania e butta giù una dichiarazione. Io vado a cercare di tirare fuori dai guai chi ci è finito. Non m’importa se ci casco dentro anche io».
La strategia gli parve semplice: riprendere i bambini a chi se li era presi.
La via dei trafficanti
Per prima cosa studiò come funzionava il traffico.
I bambini arrivavano dal suo Pakistan, dallo Sri Lanka, dall´India, dall´Etiopia, dal Sudan.
Destinazione: gli Stati del Golfo dove, per tradizione, si tenevano le corse: Qatar, Kuwait, Oman, ma soprattutto gli Emirati.
Avevano la stessa nazionalità dei domestici a servizio nelle sontuose dimore, ma entravano illegalmente.
Molti venivano rapiti, altri sottratti ai genitori con l’inganno, promettendo che sarebbero stati adottati da una famiglia ricca, di cui veniva prodotta la fotografia: eccoli nel giardino di una villa, con un cucciolo di cane e questa è l’altalena che vostro figlio userà.
Non poté non ammettere che altrettanti venivano semplicemente venduti, per fame: duemila dollari, anche meno.
All’aeroporto passavano i controlli drogati, in braccio a mamme fasulle.
Oppure venivano stipati in un container, mentre una mancia entrava nelle tasche dei doganieri. Li attendevano campi di lavoro come quello davanti a cui adesso Burney sostava in auto, aspettando il momento per entrare in azione.
Ne aveva già visti a decine, sempre uguali: baracche e recinti. Niente elettricità, niente acqua.
I bambini dormivano su una stuoia, ammassati. Sveglia alle tre del mattino, ritirata alle nove della sera.
Nelle altre diciotto ore accudivano i cammelli e si allenavano.
Quando erano troppo piccoli venivano legati al cammello con strisce di velcro.
Se urlavano, la velocità aumentava. Se andavano piano, venivano battuti. Loro, non i cammelli.
All’ora del pasto: tre biscotti. Oppure: mezza pagnotta.
Non bastava che fossero leggeri perché piccoli, li volevano ultraleggeri perciò denutriti.
Un bambino salvato da Burney ha raccontato di aver assaggiato il cibo destinato agli animali.
Lo stava gustando quando è stato scoperto: lo hanno frustato e poi collegato a un generatore provocandogli scosse a tutto il corpo.
Gli allenamenti erano duri e rischiosi. A quell’età stare per ore in groppa a un cammello in corsa pregiudica un normale sviluppo degli organi sessuali.
Le cadute erano frequenti, nessun medico accudiva i feriti, perché la loro presenza era clandestina.
Qualcuno era morto. L’avevano trasportato qualche duna più in là e sepolto senza lasciare sulla sabbia altro che orme senza memoria.
Ashraf e Akram, due fratelli di 5 e 7 anni riportati a Karachi dopo una lunga schiavitù, hanno raccontato: «Farsi male era una cosa comune.
Abbiamo perso sangue dalla bocca, dal naso, dallo stomaco e l´abbiamo inghiottito in silenzio.
I guardiani non volevano sentire lamentele. Di giorno urlavano, di sera tiravano a sorte con quale di noi divertirsi». Sessualmente, intendevano abbassando lo sguardo.
Poi raccontarono anche che cosa successe a un bambino caduto in gara: «Lo riportarono al campo. Lo trascinarono in una baracca. Più tardi uno venne e, per punizione, gli bruciò una gamba.
Dopo, non serviva più».
Ansar Burney sapeva che la stessa cosa stava per succedere al bambino che aveva seguito.
Salvarne uno in più
In sedici anni ne aveva portati via qualche migliaio, 387 nel solo 2004.
Aveva fatto approvare negli Emirati una legge che puniva l´uso di fantini sotto i quindici anni o i quarantacinque chili. Ma non era riuscito a farla rispettare. Allora aveva nascosto una micro-telecamera in un accampamento.
Da 24 ore di registrazioni aveva tratto un documentario trasmesso con scalpore dalla rete via cavo americana H BO. L´anno scorso lo sceicco Mohammed bin Zayed, che guardava la tv più di quel che succedeva nel suo emirato, decise di aiutarlo.
Inasprì i controlli, creò, ad Abu Dhabi, un ostello per ospitare i bambini strappati ai predatori.
Il Qatar annunciò che avrebbe provato l´impiego di mini-robot come fantini.
Ma a Dubai le corse continuano. Gli annunci sui quotidiani arabi presentano come una speciale attrazione per il pubblico la possibilità di vedere i piccoli spaventati fantini. Per questo Burney era venuto, nuovamente, fin lì: per liberare almeno un bambino in più.
Quando davanti alla baracca rimase un solo guardiano scese e lo affrontò.
L’uomo fece resistenza.
Burney mostrò una lettera personale dello sceicco, citò la legge. Il guardiano ribatté che il bambino aveva quindici anni.
Mostrò un passaporto e un visto della federazione che erano stati falsificati o, peggio, rilasciati a pagamento da un funzionario corrotto.
Burney non vide altra soluzione: lo spinse nella sabbia, si caricò il bambino in spalla e scappò portandolo con sé.
Ora non gli restava che rimpatriarlo, cercare di riconsegnarlo alla famiglia, sperando che non l’avesse venduto.
Il bambino tremava, disse di avere tre anni, di chiamarsi Shaid.
Burney lo portò all´ambasciata del suo Paese. Sapeva già che non l´avrebbero aiutato volentieri. Il funzionario scosse la testa: «Perché si dà tanto da fare? È inutile.
Serve solo a mettere nei guai lei e noi».