Il mondo attraverso i suoi occhi neri

di Kim, Carlo e Maria Iacuzzi “Caspita… ora tocca proprio a me!” Sto pensando a questo mentre cerco di raccogliere i pensieri legati a quest’incredibile esperienza da condividere con voi. Ho letto decine di diari di viaggio. Mi sono immedesimata in ogni storia. Non sapendo da che parte cominciare rompo il ghiaccio con un po’ di doverose presentazioni. Mi chiamo Maria, abito in provincia di Udine. Io e mio marito Carlo il 31 ottobre 2004 abbiamo preso il volo alla volta di Ho Chi Minh City dove, ad attenderci, c’era la nostra Kim.Ciò che più mi sta a cuore in questo momento è far capire a tutte le coppie in attesa che prima o poi i sogni diventano realtà. Credetemi. E non lo dico “tanto per” ma dal profondo del cuore. Certo, non è facile, l’attesa è snervante ma ancora oggi guardo negli occhi la mia stellina e non mi capacito. Da una parte mi sembra di averla sempre avuta accanto, dall’altra ripenso al lungo percorso fatto e mi dico: “ce l’abbiamo fatta!!!”. Kim è entrata nei nostri cuori in un caldissimo pomeriggio di luglio. Mi stavo recando a Trieste per lavoro ed ero un po’ giù perché dovevo cercare di risolvere una bella grana. Appena partita squilla il cellulare ed ecco la voce di Cinzia che mi dice: “Maria, hai qualche minuto da dedicarmi? Devo dirti una cosa importante: c’è un gruppo di bambini di circa un anno che aspettano mamma e papà. Sono dei bimbi speciali perché riscontrati positivi al virus dell’epatite”. Stavo entrando in autostrada e la mia mente si è fermata! Ho detto solo una parola: “si”. L’ho fatto d’istinto. Poi con Cinzia ho affrontato il discorso sanitario che riguardava soprattutto Carlo (credevo). Nel suo dossier, infatti, c’era una chiara indicazione riferita proprio al fatto che non si sentiva in grado di accogliere un bimbo con problemi di epatite. All’epoca dei colloqui erano infatti trascorsi solo due anni dalla scomparsa di suo padre, morto a causa di un tumore provocato da un’epatite diagnosticata con circa vent’anni di ritardo. La ferita era troppo fresca… allora. Perché proprio noi? Perché Cinzia, tra le tante coppie, ha scelto proprio noi con queste premesse? Non era il momento di fare certe domande. Non ho chiesto nulla ma prima di concludere la conversazione Cinzia mi ha detto che si tratta di una bambina e che non era in grado di sapere se era ammalata o solo positiva.
Con queste informazioni in mente ho chiamato immediatamente Carlo. Con il cuore in gola gli ho parlato anche del problema epatite e, con un entusiasmo senza pari, non ha avuto dubbi nell’urlarmi all’orecchio il suo: SI!!! Non sapendo come esternare la mia gioia ho cominciato a suonare il clacson. In autostrada mi hanno presa tutti per pazza. A dire il vero non ricordo quasi nulla del tragitto che quel pomeriggio mi ha portato a Trieste. Ho richiamato Cinzia e le ho raccontato quanto Carlo mi aveva detto. Ci siamo date appuntamento per l’indomani a Trento per firmare i documenti d’accettazione dell’abbinamento. Quel nove luglio è stato indimenticabile e frenetico. Nelle ore successive io e Carlo abbiamo chiamato pediatri e specialisti. Tutti ci hanno dato lo stesso responso: “state tranquilli e portate a casa quella bambina”. Eravamo distanti (io a Trieste lui a Pordenone) e, una volta a casa – alle otto di sera – finalmente siamo riusciti a guardarci in faccia, stravolti e increduli. Non è stato un abbinamento facile soprattutto per quanto mi riguarda. Ho sentito Kim mia dal primo istante. L’adozione non era più un riferimento ad un bimbo astratto: era nato, viveva, aveva un nome e il suo destino era legato alla mia decisione. Le paure sono arrivate dopo sia per mio scrupolo di coscienza sia per familiari che invece di aiutarmi serenamente hanno fatto il possibile per mettermi i bastoni tra le ruote. I giorni successivi sono stati terribili. Mentre Carlo era tranquillo e sicuro della decisione presa, io sono entrata in paranoia. Ho pensato e ripensato. Mi sono chiesta: sarò in grado di affrontare un problema come l’epatite (nel caso che davvero ce l’abbia)? Ma non riuscivo a pensare di cambiare idea: Kim mi era già entrata nel sangue. Su una cosa io e Carlo eravamo d’accordo: o lei o nessun altro.
Nei giorni seguenti mi sono ripresa. Grazie alla pazienza di Cinzia e alle parole di amici fidati ho ritrovato la serenità e la certezza di aver preso la decisione giusta. L’estate è trascorsa in fretta tra mille preparativi in attesa del 30 agosto, data del “Paese che vai”. Da bravi motociclisti ci siamo anche fatti “l’ultimo” piccolissimo giretto in Croazia sulle nostre due ruote. Sembravamo deficienti: motori rombanti sotto il sedere e, una volta scesi, a parlare di camerette, pappe e biberon! E’ passato settembre senza novità e anche ottobre sembrava dover subire la stessa sorte… e invece: il 21 è arrivata la seconda telefonata, quella che tutti aspettano: SI PARTE! Euforia a mille, e valige già pronte da un po’.Siamo partiti con Alberto e Nadia, una coppia di Torino e oggi mamma e papà dello strepitoso Mattia. Li abbiamo incontrati all’aeroporto di Parigi. I nostri piccoli provengono entrambi da Vung Tau. Il lungo volo alla volta di Ho Chi Minh City è trascorso in fretta tra confidenze, paturnie e attese. Una volta atterrati un caldo opprimente ci ha tolto il respiro e con sollievo siamo saliti sul taxi insieme a Ingrid e alla referente My Linh. Durante il tragitto verso l’hotel Kimdo le abbiamo bombardate di domande sui bambini.
”Mattia è bellissimo e molto vivace” – hanno detto – “Kim è cicciotella, mattacchiona e con un taglio di capelli assurdo” … “Già, è proprio nostra figlia” – abbiamo pensato noi.Dopo due giorni da comuni turisti riceviamo la telefonata di My Tram (sorella di My Linh) che ci dice di farci trovare pronti alle dieci della mattina successiva con tutti i bagagli. E’ giunto il momento di andare a Vung Tau! Dopo l’ultima cena da “morosi in vacanza” andiamo tutti a dormire pensando che il grande giorno è arrivato. Con valige, borsoni e zaini saliamo sul taxi che ci porta dai nostri bimbi. 150 chilometri ancora e poi…? Già, e poi cosa ci aspetta? In quel viaggio è accaduto di tutto. Il cellulare di My Tram che squilla in continuazione: “adesso andiamo in albergo e pomeriggio in istituto…”, “No, cambio di programma, andiamo subito dai bambini e poi in albergo”… ”Potrete recarvi ogni giorno in istituto fino al momento della cerimonia, quando i bambini vi verranno affidati definitivamente…”. Un quarto d’ora prima dell’arrivo a Vung Tau l’ultima telefonata e My Tram che ci dice: “andiamo subito in istituto a prendere i bambini che resteranno con voi già da oggi”. Facile immaginare la nostra reazione: AIUTO, CI SIAMO!!! Da brava quasi/mamma italiana mi è sorto un problema: “non ho ancora comperato nulla per la piccola”. In valigia avevo solo un paio di vestitini, qualche giocattolo e due biberon: Cavolo, i pannolini, le pappe…! Come faccio adesso? My Tram mi dice che non è un problema. Mi fido. Giunti in istituto scendiamo dal taxi come schegge. Saliamo una rampa di scale e ci accoglie il direttore. Accanto a lui c’è un bimbo che si nasconde tra le sue gambe. “E’ Mattia” – dice Nadia. A quel punto, non ancora in cima, My Tram dice a me e a Nadia di andare a prendere un giochino da dare ai nostri bimbi. Completamente rintronate scendiamo quella scalinata che ci è sembrata eterna. L’autista ci aiuta ad aprire le valige: dove sono i giocattoli!!! Come sempre quando ti serve qualcosa non la trovi mai.Finalmente riusciamo nell’intento e ripercorriamo nuovamente la scalinata che ci separa dai nostri piccoli. Vedo Carlo che riprende con la telecamera l’incontro di Alberto e Nadia con il loro Mattia. Mi tremano le gambe. Qualcuno, non ricordo chi, ci fa entrare in una stanza. Sentiamo voci di bambini… Un istante dopo una didi mi mette in braccio una bimba bellissima, con le guanciotte da mordere ed un taglio di capelli davvero assurdo, stile moicano: è la nostra Kim. A quel punto mi aspetto un pianto. Invece no, Kim mi guarda, mi studia ma non versa una lacrima. Giochiamo un po’ insieme mentre Carlo cerca di tenere ferma la mano tremante per fare qualche ripresa da consegnare ai posteri. Poi facciamo cambio con qualche timore: incredibile anche con papà il feeling è immediato. Saranno gli occhiali blu o la barba che pizzica, fatto sta che si piacciono da subito (e adesso la love story continua).
Dopo circa due ore (credo, ma di quel giorno non sono sicura di nulla) My Tram ci dice che è ora di andare. Le didi mi consegnano tre pannolini, un biberon di latte e qualche cambio di vestiti. Mi sento in colpa: “ma come, sono loro che danno le cose a me?”. Saliamo sul taxi per andare al Summy Hotel di Vung Tau. Durante il tragitto i bambini si addormentano e noi ancora non riusciamo a renderci conto che sta succedendo davvero. Una volta in albergo My Tram ci porta un po’ di viveri per i bambini e ci spiega le loro abitudini alimentari e… intestinali. Con pappe e vasini, borse e valige saliamo in camera!Io e Carlo ci guardiamo negli occhi e guardiamo il nostro grande amore che sta ancora dormendo.Bene, e adesso che si fa? Da dove si comincia? – ci diciamo. Caspita, non abbiamo mai cambiato nemmeno un pannolino! Il soggiorno a Vung Tau è durato circa due settimane che noi credevamo “balenabili”. Non avevamo fatto i conti con le temperature incredibili e con le bufere di vento serali. Dopo aver acquistato il passeggino e tutto il necessario per Kim, abbiamo trascorso le nostre giornate tra passeggiate mattutine (molto mattutine), qualche giretto pomeridiano con Cao (un taxista di fiducia), un paio di tuffi in piscina e molte ore nella hall dove Kim ha imparato a camminare tra i sorrisi e gli abbracci di tutto il personale dell’albergo. Kim si è adattata subito a noi anche se gli inizi sono stati po’ anomali in quanto del tutto senza lacrime. La cosa ci ha preoccupato un po’. Vedevamo la nostra cucciola trattenere il pianto. Dicevamo: “dai Kim, piangi, siamo qui per te”. Beh, diciamo che dal terzo giorno ci ha preso in parola ed oggi trasmette spessissimo il suo disappunto con lacrimosi e singhiozzi degni di una grande attrice drammatica.
Il nostro vero impatto con il Vietnam è stato strano. Vung Tau a novembre è un luogo molto tranquillo, con pochissimo traffico (incredibilmente i clacson si sentono ugualmente). La gente ti ferma per strada, ti chiede notizie dei bimbi, ti offre la frutta e soprattutto… cerca di convincerti a fare un giro con il rishò. Il popolo vietnamita è davvero particolare. Tutto il sistema funziona in modo anomalo. La logica non ha toccato questi lidi. In compenso le persone ti dimostrano in ogni modo un rispetto e una gentilezza alle quali noi occidentali non siamo molto abituati, ma che certamente fanno piacere.
Il 19 novembre finalmente arriva il momento tanto atteso: la fatidica cerimonia. Preparati a puntino e con il nostro bel bagaglio di regali ci avviamo verso l’ufficio competente. Da quel momento in poi tutto si è svolto in maniera molto diversa dalle attese. Eravamo emozionati ma un’atmosfera fredda e improvvisata ci ha accolto da subito smorzando immediatamente gli animi. La referente è andata a cercare il funzionario, ci ha detto di firmare e fotografare il più possibile. Prima di firmare i documenti ci ha detto che dovevamo fare una fotografia “di famiglia” sotto la scritta che campeggiava sopra una finestra nella quale c’era scritto (a grandi linee) che la cerimonia aveva avuto luogo. Sul momento aspettiamo che qualcuno dell’ufficio si presenti con una macchina fotografica. Invece no, dovevamo farlo con la nostra. Insomma, quella foto era necessaria… a noi. Beh, anche questo è Vietnam. Dopo la “cerimonia” ci siamo recati all’ufficio passaporti. Anche qui un’atmosfera surreale. I bambini non ne potevano più e facevano il diavolo a quattro. Kim non voleva saperne di stare ferma mentre Mattia pensava bene di smontare un pezzo di scrivania…
Finalmente, a pratiche burocratiche concluse, siamo saliti sul taxi e, dopo aver ritirato i bagagli in albergo siamo partiti per Ho Chi Minh City. Per la parte restante del viaggio abbiamo alloggiato all’Apple Hotel. Ci siamo trovati molto bene anche se senza le comodità del Kimdo. Al nostro sestetto si è aggiunto un altro terno di persone. Per puro caso, infatti abbiamo conosciuto una coppia di italo-irlandesi da tempo in città per il nostro stesso motivo, ma con qualche problemino burocratico da affrontare. Alloggiando nello stesso albergo ci sembrava di vivere in condominio. Loro, poi, godevano di un lusso in più che condividevano volentieri con noi: una enorme terrazza al nono piano fornita ti tavolini e panchine che noi, da bravi italiani, abbiamo sfruttato al meglio tra cenette e spuntini.A Ho Chi Minh mi sono sentita rinascere. Anche facendo le ore piccole ero sveglia e vigile. Dopo il torpore di Vung Tau sembravo un’altra. Anche Kim si è adattata benissimo ai nuovi ritmi e al caos della città. Non so bene come spiegare ciò che si prova laggiù. Io e Carlo abbiamo affrontato questo viaggio non solo come coppia che sta adottando una bambina ma anche come individui. Sono esperienze che ti segnano per sempre, è fondamentale riuscire a viverle serenamente anche con tutti gli intoppi che possono derivare da un sistema completamente diverso dal nostro. L’importante è poter essere lì. Il rientro è stato durissimo. Come l’aereo ha decollato a Ho Chi Minh io sono scoppiata a piangere senza un perché. Stringendo Kim tra le braccia mi sono sentita sciogliere. Il bello è che lo stesso mi è poi accaduto ad ogni successivo atterraggio e decollo fino al rientro a casa…
Già, a casa. Mai questa parola mi è sembrata così emozionante e ricca di significati.
Oggi siamo in tre. Kim da subito è partita alla scoperta di questo universo finora a lei sconosciuto. Si è appropriata dei suoi spazi cercando di sconfinare anche nei nostri… Vive serena ed è fantastico vedere come ogni cosa le crei stupore e meraviglia. Ogni tanto penso che anche a me piacerebbe vedere il mondo attraverso i suoi splendidi occhi neri.