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Lettera aperta al mio bambino… sono passati tre anni

Paola Terrile e Giuseppe Virciglio

Lettera aperta al mio bambino… sono passati tre anni
02 ott 2006

C’è una foto dell’inizio di quest’estate che mi ha fatto venir voglia di raccontare che cos’è vivere insieme a te, caro Bikash. Nella foto ci sei tu, in piedi nel corridoio di casa, davanti a te la tua valigia appena acquistata ed appena riempita per partire per il mare. Eri orgogliosissimo di quella valigia azzurro aviazione, la prima veramente tua, ed hai voluto che ti fotografassimo.Il tuo sguardo in quella foto, serio, fiero e denso di attesa felice per le vacanze che stavano per iniziare, era lo sguardo di un bambino ben installato nella propria vita. Riguardando la tua valigia mi è tornata in mente quella che ti abbiamo preparata prima della partenza dal Nepal per arrivare a casa: era piena di vestitini appena comprati, nuovi, come tutto era nuovo per te e per noi. In questa valigia azzurra invece, insieme ai tuoi pantaloncini e alle magliette più grandi (sei cresciuto almeno trenta centimetri,da allora) c’è già un po’ di storia comune, i ricordi di questi tre anni, i tuoi cambiamenti e i nostri. Non sarebbe possibile raccontarli tutti, proverò a pescare nella memoria qualche flash. 

I tuoi salti, piegato sulle ginocchia ad imitare l’andatura di una scimmietta, durante le nostre prime visite in Istituto. Avevi cinque anni, eri piccolo e magrolino, agilissimo: saltellavi tra il tavolino basso ed il tappeto della saletta dei giochi, in mezzo agli altri bimbi, e poi all’improvviso con un salto più lungo mi balzavi in braccio, le braccine saldamente avvinghiate al mio collo. Oppure mi torna in mente quando, a spasso per le strade della città, chiedevi di salire sulle spalle del papà, e da lì, al sicuro, guardavi tutto attentissimo, indicavi, provavi a farti capire… Un bimbo allegro, pieno di vita e di curiosità di imparare, con tanta voglia di una nuova famiglia. Lo capivamo dalle coccole che ci chiedevi, dal tuo immediato familiarizzare con tua sorella. Da subito c’è stato molto affetto tra noi, ma eravamo reciprocamente sconosciuti e questo ogni tanto spiazzava anche noi adulti. Solo ora capisco fino in fondo quanto complesso sia stato per te adattarti a noi.

Credevi ti portassimo in America, qualcuno prima che arrivassimo ti aveva detto così, invece sei finito in una città del nord Italia, in gennaio, e proprio non capivi perché facesse così freddo e dove fossero finite le foglie verdi degli alberi e le scimmie tra i rami. All’asilo, dove ti sei inserito subito, ti sei trovato tra bimbi con abitudini da piccoli, poco autonomi. Li guardavi perplesso, disegnavi e ritagliavi pistole di carta e le distribuivi agli altri bimbi, che dovevi fare in quel mondo così sconosciuto?

Piano piano hai iniziato a metterci a parte del tuo passato, la tua storia e come vivevi in Nepal prima di essere portato in Istituto: il papà forse fuggito o forse morto quando eri piccino, le tue tre sorelle, una già in un altro istituto, un’altra con la nonna e la più grande che doveva occuparsi di te, ma tu le sfuggivi. Il tuo vivere per strada, spesso in compagnia di ragazzi più grandi, che vendevano piccole cose per due spiccioli e li spendevano ai videogiochi. La mamma che lavorava tutto il giorno per darvi da mangiare, ma eravate sempre poveri, e cambiavate spesso casa e paese per cercare fortuna, e camminavate tanto a piedi con le ciabattine sempre troppo corte… Il cibo che ti preparava la mamma, riso e lenticchie con tante spezie, perché mai qui c’è tanto da mangiare ma è così insipido? Oppure, chiedevi, perché qui tutti hanno fretta, come mai la maestra vuole che ritiri le cose nello zaino in cinque minuti? Perchè non posso farlo con calma?

Hai sempre avuto necessità di muoverti molto, correre, sciare, provare diversi sport. Hai subito stretto amicizie solide con gli altri bimbi, compagni d’asilo e di scuola. Ma avevi ed hai ugualmente bisogno di giocare da solo, a costruire casette di Lego, ore ad inventare, o a leggere libri e fumetti, da solo.

Dopo i primi sei-otto mesi, quando hai cominciato a fidarti di più del fatto che non ti riportassimo indietro, hai smesso di fare solo il bimbo grande e competente, e sono emerse con più forza le tue paure di dormire solo, della notte, la tua angoscia ogni volta che qualcuno di noi se ne andava anche per poco tempo. La tensione che ti procurava ogni viaggio e cambiamento. C’è voluto anche qui del tempo, molto affetto e fiducia, ma insieme, piano piano, le abbiamo domate. 

Fin dai primi giorni hai affrontato la scuola elementare con serietà ed impegno, a volte appunto con parecchia ansia e desiderio di primeggiare, ma sempre con autentico e commovente desiderio di imparare.

”Se fossi rimasto in Nepal - mi hai detto un giorno qualche mese fa - non sarei mai andato a scuola… Anche per questo sono contento di stare con voi”.

Le tue riflessioni, questa e moltissime altre, frasi sgorgate all’improvviso in un pomeriggio durante la merenda o durante un giro in bicicletta, mi hanno aiutato più di ogni altra cosa a conoscerti. Come quella volta in cui, dopo una giornata di intenso divertimento nei rutilanti giochi di Disneyland Paris, invece di raccontare al papà la giornata ti sei chiuso in te stesso ed eri tristissimo, e solo la mattina dopo mi hai rivelato che avresti voluto prendere i giochi e i soldini e portarli in Nepal a tua mamma e a tua sorella, che non ne avevano…

O quando ci hai raccontato un mattino quel sogno in cui partivi a cavallo con due amici, anche loro figli adottivi, per il Nepal, e alla fine là trovavi la tua casa, ma anche noi tutti che ti avevamo fatto una sorpresa; e trovavi anche tua sorella maggiore del Nepal, della quale pur amando la tua sorella italiana soffrivi tanto la mancanza…

L’altro giorno, poi, mentre parlavamo con la tua amata sorella di ciò che conta nella vita, ci hai regalato la frase: ”Sapete qual è la cosa più importante di tutte? Avere una mamma e un papà”.

All’inizio e per lunghi mesi non capivo alcuni aspetti di te, la tua impulsività mi faceva persino paura. Ti amavo e cercavo di accettarti com’eri, ma quando sfuggivi al mio modo di essere e di pensare non era facile rapportarmi con te. Quando chiedevi senza sosta giochi e cose, e non eri mai soddisfatto, ma sempre avido; ed io e il tuo papà ci sentivamo genitori-supemarket. Quando eri molto aggressivo con gli altri bambini e con la tua forza fisica li gettavi a terra. Quando giocavi per giorni solo con le armi e parevi davvero un piccolo soldato… Quando volevi essere autonomo, andare in giro da solo, ti allontanavi senza dir nulla ed io mi spaventavo e tu non capivi perché. A volte ti ho sgridato ingiustamente, per semplice incomprensione del perché agivi in un certo modo. Tu mi guardavi perplesso e tacevi. Devi aver capito che lo facevo in buona fede, perché col tempo i nostri scontri sono quasi scomparsi, ed ora mi fai tanti regalini, braccialetti nelle bustine di carta con su scritto “per la mia dolce mammina”, disegni da appendere in studio…

Le volte che ti chiudevi in te stesso, col visino impenetrabile, rifugiandoti nei tuoi giornalini, e per giornate non ci rivolgevi la parola. Capivo che erano attacchi di nostalgia del Nepal, ed infatti ti prendevo sulle ginocchia, tu raccontavi qualche episodio e subito dopo eri di nuovo allegro.

Sei cresciuto in questi tre anni, ora sei un ometto di quasi otto, disegni benissimo e ti piace la storia, da grande vuoi fare l’inventore e costruire una grande casa per i tuoi genitori… Sei sempre coccolone, ma hai molte meno paure. Sei più disordinato e giochi meno alla guerra, fai domande più complesse e ti piace sempre tanto giocare col lego…

C’è voluto molto tempo per capire quanto profonde erano la tua saggezza, la tua forza d’animo e la tua maturità emotiva, quanto più “grande” eri dei tuoi cinque o sei anni. 

Tanto tempo, mesi ed anni, c’è voluto per imparare, educandoti a vivere nel nostro mondo, a rispettare il tuo modo di essere e la tua storia, lasciandoti lo spazio per vivere i ricordi, anche quelli tristi, la nostalgia, il sentirti diverso da noi, dagli altri. Perché tu sei diverso, ma un conto è saperlo, un altro è accettarlo davvero e sentirlo come un valore.

Tu non vuoi e non puoi dimenticarti del Nepal, ci hai vissuto i primi cinque anni di vita ed è e resterà per te una parte fondamentale della vita (“Se da grande volessi reimparare il nepalese - mi chiedevi l’altro giorno - come faccio?”). Allo stesso tempo devi e vuoi dimenticartene un po’, per diventare più simile che puoi agli altri e sentirti il più possibile figlio nostro, più italiano possibile. 

Perché si cresce più sereni, se ci si radica dove si vive.

Sei un po’ in un modo un po’ nell’altro, inevitabilmente, e noi genitori abbiamo dovuto imparare a frenare il nostro legittimo desiderio di sentirti nostro figlio fino in fondo, per non schiacciare la tua persona.

In questi tre anni con te, caro Bikash, ho imparato che la grande sfida per noi genitori adottivi, (in particolare per noi che vi abbiamo conosciuti che eravate già grandini, ma credo anche per gli altri), l’aspetto più difficile e allo stesso tempo la più grande opportunità, è proprio quella di avere un figlio che non potrà mai essere completamente come noi. Non solo per i tratti somatici, ma per il tuo passato, la cultura da cui proviene, le tue origini. 

Dobbiamo imparare a conviverci, ad apprezzarle anche quando non le capiamo, ad entrare ogni giorno, quando nostro figlio ce lo domanda, in relazione con loro. Perchè questo potrà aiutare lui nel tempo ad affrontare le difficoltà ed a crescere con un suo equilibrio, che per forza deve consistere nell’imparare a tracciare un ponte che collega i suoi due mondi.

Ma anche perché soltanto così noi possiamo diventare con lui una famiglia nel vero senso del termine. Accettando ed apprezzando il suo modo di essere nei suoi tratti diversi ed estranei senza pretendere di trasformarlo, ed insegnandogli ad accettare il nostro.

Siamo un po’ dei pionieri della convivenza col diverso, noi famiglie con figli stranieri, in un mondo come quello odierno, dove le persone di culture tra loro lontane sempre più ed in svariati modi vivono vicine.

Credo che noi abbiamo più degli altri genitori una grande chance, se ogni tanto fermiamo le nostre corse, nella vita quotidiana, e ci diamo il tempo di stare con loro con calma. Se in questo tempo riusciamo a guardare i nostri figli, anche dopo anni, non solo come “nostri“, ma come i figli del mondo, allora potremo capire quanto sia prezioso, nonostante tutte le difficoltà, quello che apprendiamo gli uni dagli altri. Stiamo imparando a mettere insieme e a far convivere nella vita di ogni giorno con la maggior armonia possibile l’amore e il rispetto, la vicinanza affettiva e la distanza culturale, il simile fino ad essere quasi uguale e l’irrimediabilmente diverso.

Per avermelo insegnato, bambino mio, la tua mamma italiana ti ringrazia.

Paola Terrile, mamma di Bikash